Pasque veronesi
Col nome di Pasque Veronesi, fu chiamata (per analogia con i Vespri siciiani) l’insurrezione generale della città di Verona e del suo contado, scoppiata il 17 aprile 1797, lunedì dell’Angelo.
Le pasque veronesi vanno fatte rientrare in un periodo più ampio compreso tra il 1796 e il 1814,in cui i giacobini rivoluzionari,guidati dal generale còrso Napoleone Bonaparte invadono la penisola italica importando i falsi ideali della rivoluzione francese.
La Francia vuole esportare l'odio contro la Chiesa e rovesciare le tradizionali istituzioni sacrali,sia civili che religiose,alle quali i popoli erano molto attaccati,ricorrendo per farlo al concetto di Iluminismo.
C'è da dire che questo clima libertino iniziò a diffondersi anche nella Repubblica di Venezia,la quale secondo alcune fonti subì in quegli anni un grande decadimento culturale: gran parte del patriziato era indifferente alla religione,imborghesito e spesso affiliato a logge massoniche.Il popolo e buona parte del clero (specie basso) invece erano rimasti restii alle idee illuministe che provenivano d’Oltralpe.
Una volta occupati il Piemonte e la Lombardia austriaca,col pretesto di inseguire gli austriaci in fuga,Napoleone si spinge nei territori della Repubblica Serenissima,la quale sin dagli inizi delle mire espansionistiche della Francia si era sempre dichiarata neutrale sia a lei che all'Austria.
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Così agli inizio di luglio del 1796 arriva ai confini di Bergamo,subito i bergamaschi scrissero al doge e al Senato Veneto la lettera seguente:
"La gratitudine verso gl’innumerevoli benefizii versati sopra di noi dalla Serenissima Repubblica che per tanti secoli fra noi mantenendo la Giustizia, la Sicurezza e la Felicità colle sue leggi clementi, ne dona il dolce diritto di chiamarci più figli ancora che sudditi del suo paterno imperio; la gloria di appartenere ad un principato che colla sua sapienza e col vigore de’ suoi consigli resosi vittorioso di tutte le vicende, e del tempo distruttore, tende colla sua costanza ad una durata immortale; il sentimento geloso della nostra sicurezza dipendente dalla prosperità del nostro Dilettissimo Governo, senza cui saremmo confusi miseramente nelle sciagure di tanti popoli che con un gemito solo che risuona in tutta l’Europa, attestano la somma differenza dalla nostra fausta sorte; tutte queste considerazioni importantissime esigono che nei bisogni e pericoli dello Stato si sveglino tutti i membri, e con calore e prontezza, da figli corrano li sudditi a circondare colle loro vite l’adorato Principe, offrendo sé stessi alle saggie di lui disposizioni nel comune periglio per una efficace difesa, e presentando l’idea d’una devozione amorosa alla sua legge e d’un consenso che atto sia a frenare gli occulti nemici, li quali pensassero di turbare uno Stato, che oltre li suoi mezzi potenti è munito della prima salda forza degli Imperii, di quell’amore inestinguibile che nasce dalla persuasione e felicità dei sudditi. Per questi oggetti sentiti profondamente dagli abitatori delle infrascritte valli, e dai corpi infrascritti del piano, e con tanta rapidità ed ardore abbracciati dai rispettivi Consigli, essi hanno colle unite parti [allegate deliberazioni] spiegato il vivo desiderio di spendere il sangue e la vita in difesa del Principe, con uno sforzo degno di noi e di quella devozione pervenutaci in retaggio dai nostri Maggiori [antenati].
In vigore, però, delle risoluzioni prese dalli consigli suddetti, e della facoltà data a noi infrascritti difensori e sindici generali di dette valli e corpi del piano, dopo un esame maturo delle nostre forze, resta unanimemente preso e stabilito: Che riservato di fare un giusto riparto calcolato sulla forza delle rispettive popolazioni, del numero che sarà accettato e ordinato, sia umiliata col mezzo del nostro commissionato difendente Bidasio Imberti a piedi del Trono del Serenissimo Principe l’offerta del numero di diecimila uomini de’ nostri abitanti atti alle armi, li quali armati colle proprie armi, e regolati come parerà alle saggie disposizioni del Sovrano, siano pronti ad accorrere a servire ai pubblici comandi in ogni luogo di questa provincia bergamasca, alla difesa e conservazione sotto a questo amatissimo dominio, e di far sentire al Principe la volontaria disposizione di portare quei pesi che fossero occorrenti per conservare la comune felicità, supplicando il zelantissimo ed amatissimo nostro pubblico Rappresentate nobil uomo Alessandro Ottolini, verso cui queste popolazioni hanno mille veraci doveri per le prudenti misure costantemente adottate per la sicurezza ed il bene di questi popoli, ad accompagnare benignamente questo nostro Commissionato, che porta tale sincero attestato della nostra fedeltà e suddito amore, desiderando che sieno messi alla prova li sentimenti di gratitudine e di zelo per li quali siamo unanimi fino alla morte per la gloria e difesa del più giusto e benefico de’ Sovrani".
(Lettera inviata il 7 luglio 1796 dal Podestà di Bergamo N.H. Alessandro Ottolini al Serenissimo Doge e all’Eccellentissimo Veneto Senato)
Il 12 marzo 1797 però il servizio segreto napoleonico, diretto dal generale Landrieux, attuò un golpe spalleggiando le provocazioni dei pochi giacobini locali.
Scacciato il legittimo governo veneto, il 13 marzo 1797 fu dichiarata in città la cosiddetta Municipalità democratica.
Nei giorni successivi le genti bergamasche dei paesi circostanti insorsero a difesa della Patria Veneta, si armarono e attaccarono da soli Bergamo per reinsediare il Podestà veneziano,Alessandro Ottolini, che era stato spodestato dai Francesi. Purtroppo furono respinti subendo gravi perdite da parte dei rinforzi inviati da Napoleone.
Il 18 marzo 1797 è la volta di Brescia a cedere sotto la municipalità provvisoria,istituita anche grazie all'aiuto degli illuministi filogiacobini.
Per ricostruire i fatti è interessante leggere le memorie del collonnello Miovilovich, comandante degli schiavoni bresciani(che scrive in terza persona):
“Som tradit! i siori no vol più San Marc! nu alter som tut tradit! oh, Dio!”
Il colonnello riceve dal Provveditore Battagia, nominato dal Senato perché probabilmente gradito ai francesi, nel vano tentativo di pacificarli, l’ordine di tenere la truppa in caserma
“Il Miovilovich, costretto dalla legge della militar subordinazione deve obbedire al datogli comando(..) ma qual pena non è per uomo di contrario sentimento l'eseguir una tal commissione"
Decisi a resistere sotto il vessillo di San Marco, non vi erano solo gli schiavoni, ma gran numero di cittadini comuni, quelli che formano “il popolo” insomma, che i giacobini dicevano di rappresentare. Con voto unanime, erigono barricate nel Corso principale.
“ Giunto sul posto trova essere la cosa più seria di come era stato riportato.Tutto il Corso della Palada era in armi, le botteghe barricate, e tutti pronti a far fuoco. Al suo apparire viene circondato da quella brava gente, si sente dire da più voci, in lingua del paese : ” Lustrissim, som qué par el nostro Princip, viva San Marc non volon bergamasch, li acoparom tuti! ”
Erano bergamaschi giacobini accorsi a dar man forte a quelli bresciani.
Il 28 marzo 1797 è la volta di Salò ad essere istituita la muncipalità democratica, ma già il giorno dopo il popolo insorse abbattendo l'albero della libertà.
L'esercito giacobino non la prese bene tanto che minacciò di ridurre la contrada ad un ammasso di ruderi,poi però preferirono poi inviare parlamentari per iniziare trattative. Accortisi però i salodiani del tentativo dei giacobini bresciani di introdursi, con l'inganno in città, i Marcolini aprirono il fuoco uccidendone e ferendone un certo numero.
I giacobini, infuriati per queste perdite,ripresero determinati l'attacco: lo scontro fu cruentissimo, in quanto in alcuni punti si combatteva corpo a corpo e per la superiorità del numero e dei mezzi dopo alcune ore pendeva dalla parte degli aggressori, malgrado la buona volontà dei difensori, che avrebbero dovuto soccombere, quando a decidere le sorti, intervennero, del tutto inaspettati, gli abitanti della Val Sabbia. Questi montanari, riunitisi in consiglio secondo il costume degli antichi comuni loro, aveva deliberato come un solo uomo di unir le loro sorti a quelle di Salò e degli 80 schiavoni delle compagnie sciolte del Reggimento Matutin di stanza a Bardolino e che già affiancavano i salodiani nel combattimento.Quelli della Val Sabbia avevano affidato il comando delle loro Cernide a un dei loro preti, Don Andrea Filippi, parroco di Barghe.
L'improvvisato comandante, informato dei combattimenti in corso intorno alla città di Salò, diede prova di qualità strategiche insolite, e divisa la sua truppa in tre colonne, piombò sulle truppe giacobine da tre diverse direttrici.Di fronte all'impatto furioso dei montanari, la rotta dei seguaci delle nuove idee fu totale e disordinata. Stretti tra valligiani trionfanti e le acque del lago, dopo aver lasciato sul terreno un gran numero di morti e una moltitudine di feriti (72 caduti e 200 feriti) non rimase loro che arrendersi.
Tale sconfitta praticamente decapitò l'intera classe dirigente dei traditori, dal momento che tra i prigionieri condotti a Salò "annoveravasi due Lechi, un Gambara, e altri o pochi rappresentanti dei più illustri casati di Brescia e di Bergamo".
I prigionieri, circa 500, vennero condotti da Salò a Venezia, per poi essere custoditi nel forte di Sant'Andrea, passando da Verona, dove l'accoglienza a loro riservata dal popolo non fu delle migliori.E' lo stesso Gambara che la descrive in un suo rapporto successivo:
"Passammo per mezzo di un popolo furibondo che ci insultava con fischiate minacce, sputi e imprecazioni...colà come vili animali esposti alla brutalità veronese passammo ogni sorta di patimenti. Laceri e in parte denudati formammo gradito spettacolo a quella ciurmaglia".
Tutta la Lombardia veneta è in fiamme. Salò è contesa da giacobini e abitanti delle vallate, fedeli al leone di San Marco, i quali, guidati da un eroico sacerdote,Don Andrea Filippi, hanno alla fine la meglio e chiedono soccorso ai veronesi. I giacobini sono però decisi non solo a riprendere Salò, ma anche a marciare su Verona.
Verona all'epoca contava di circa 50000 abitanti (230000 considerando anche la provincia).Vi era una moderato benessere economico diffuso anche nelle classi sociali meno abbienti favorito da più di cinquant'anni di pace.In città l'antica e celebre industria della seta è ricercata e produce anche per l'estero.L’amplissima autonomia amministrativa e giurisdizionale di cui gode Verona e la irrisoria pressione fiscale non fanno che accrescere il filiale affetto delle popolazioni verso la Serenissima. La concordia tra le varie classi sociali e lo spirito religioso, straordinariamente radicato in tutti i ceti, completano il quadro di una società ordinata e pacifica, naturalmente ostile alle inaudite idee che dalla Francia giacobina stavano contagiando anche la Serenissima.
D'altronde questo possiamo riscontrarlo anche dalla relazione del 25 gennaio 1795 del marchese Francesco Agdollo,un agente segreto inviato a Verona da Venezia per sorvegliare e relazionare sulla presenza tra le mura scaligere del Conte di Lilla, futuro Luigi XVIII Re di Francia:
“Nessuna notizia da questa città, il buon ordine, una simile popolazione fa apparire essere questa la sede della tranquillità”
(Tratto da "Le riferte da Verona in Arch. di Stato di Venezia, Inquisitori di Stato, busta 543")
Ma non solo i Veronesi insorsero,vediamo alcune fonti:
"Maggio 1796. I francesi si sono accampati nella valle di Caprino, presso Rivoli, allo
sbocco della Val d’Adige.
Non restavano tuttavia anche in questi stessi giorni alcuni indisciplinati soldati di girar per
le case, ed in particolare per quelle staccate dalle contrade, cercando pane e vino ed insieme rubando polli, pecore ed altro, per quanto potevano. Perloché avvenne che alcuni dei nostri paesani, perduto ogni timore, si diedero ad una risoluta difesa; tra i quali un certo di Gaiun stanco di più soffrire e vinto dalla collera, disse ad alcuni di quelli villanie e fece loro minacce: perloché tre di quei soldati, presala a male, sfoderarono i palossi e lo inseguirono sino quasi le scale di sua casa. Il paesano,vedendosi ad un estremo passo di essere ferito e forse ucciso, prese opportunamente di mano ad un suo figliuolo due fucili, li sparò contro i suddetti soldati e li ferì tutti tre, de’ quali uno restò assai malconcio.
"(..)Tuttavia fu spedita alla casa una truppa di soldati, la quale ruppe l’uscio ed entrativi i soldati portarono via i mobili e bollando ciò che trasportar non poteano, minacciavano castighi e danni a chi di là avesse smossa qualche cosa. La libertà militare non lasciò però illese le case vicine alla suddetta: entrarono i soldati in ogni luogo col pretesto di cercar il reo [...] e vi commisero molte rapine”
(tratto da Giambattista Don Alberghini ,avvenimenti della valle di caprino negli anni 1796-1801,in archivio storico veronese repertorio mensile di studi e documenti di storia patria,volume 4 fascicolo XII)
“Anche sulla Gardesana, ne' contorni di Albaredo [Albaré], nacquero simili allarmi per cui poco mancò che il Gen. Jubert non restasse morto dalle pietre lanciate da que’ montanari contro lui e le sue guardie. Ma se n’ebbero presto a pentire giacché colà i francesiessendo numerosi cominciarono ad aspramente vendicarsi e di più avrebbero fatto se il Gen. non fosse stato mosso a clemenza dai prieghi del Co. Luigi Torri che ha beni in quel comune”
(tratto da Girolamo De’ Medici,Vicende sofferte dalla provincia veronese sul finire del secolo XVIII e nel cominciamento del XIX, 2 voll., manoscritto n. 1360 della Biblioteca Civica di Verona)
“In questo medesimo giorno [11.8.1796] un grosso corpo francese si accampò nei contorni del paese di Costermano, ed un altro a Pazzon, nel luogo detto Preelle: per lo che arrecarono gravissimi danni nelle campagne d’intorno, tagliando gli alberi e raccogliendo i frutti non ancora giunti a perfetta maturità. Il passare dei giorni non portò tregua alle ruberie ed invasioni che da soldati venivano fatte nelle case, poiché col pretesto di cercar foraggi, non eravi mobile o minuto bestiame che fosse sicuro delle loro mani. La onde stanchi i paesani ed incolleriti nel vedersi lentamente spogliare delle loro sostanze si determinarono d’intraprendere una violenta difesa, ed unitisi nelle loro rispettive contrade si misero al cimento di risoluta resistenza, anche con pericolo della vita. La contrada di Gaon [odierna Gaium] fu la prima che diede i segni d’intrepida risolutezza; ed essa
servì ancor d’esempio alle altre contrade, risoluti essendo i suoi abitanti di morir piuttosto che sostenere quel lento e muto saccheggio. Eglino diedero del loro coraggio la prima prova nel dì 18 agosto, quando portatisi colà alcuni soldati a cavallo per rapine, come avevano fatto altre volte, furono da quei pochi intrepidi paesani messi in fuga. A tale inaspettata accoglienza sbuffarono quei soldati di rabbia e dichiararono volerne prendere vendetta, protestando che sarebbero tornati colassù colla truppa ed avrebbero fatto man bassa d’ogni cosa. Nè si scordarono della promessa; e due giorni dopo, cioè il 20 dello stesso mese, vi ritornarono in numero di 48 circa tutti a cavallo ed armati di sciabole ed armi da fuoco, con intenzione di fare lo spoglio delle case in vendetta del preteso ricevuto affronto. Ma avvisatine i paesani, per mezzo del suono delle campane della loro chiesa, s’armarono di bastoni, forche di ferro, ed alcuni anche d’armi da fuoco e da taglio, prontamente si riunirono, li staccarono dalle case, nelle quali avevano già incominciato lo spoglio, e col solo scagliar loro contro una tempesta di sassi li misero in rotta. I francesi qua e là dispersi e coraggiosamente inseguiti dai suddetti paesani perdettero chi l’armi, chi il cappello e chi persino il cavallo, (da cui erano smontati per non potere le bestie correre attesa la malagevolezza delle strade) all’uopo di fuggire i colpi di bastoni e de sassi che piombavano loro sulle spalle. Fu sì grande l’avvilimento e la paura de suddetti soldati che non ebbero pure il coraggio di mettere mano alle armi, ed in qualsiasi modo difendersi: e se alcuno le prese in mano fu presto costretto a riporle vedendosi rizzata contro il petto una forca di ferro o minacciato d’essere con lunghe pertiche balzato dal cavallo. Uno solo vi fu che ardì scaricare contro i paesani un colpo di fucile; ma gli fu nell’atto stesso risposto da un paesano con un colpo eguale. Con questa solennità i surriferiti ladri furono dai coraggiosi Gaoniti accompagnati ed inseguiti fino alla villa di Caiar, donde i paesani stessi tornarono addietro verso le loro case. Ma il timore, che è seguace delle dubbie imprese, svegliò serie riflessioni nella mente dei suaccennati Gaoniti e li mise in sospetto d’aver a sostenere un’assalto maggiore. Per il che, non vedendo essi altro modo al riparo, presero un’estrema risoluzione di resistere fino alla morte. Raccoltisi perciò nella loro piazza disposero il modo opportuno a difendersi, e con ordine distribuirono tra se stessi gli incarichi ed i posti da essere occupati. Si munirono tutti prestamente di armi e fusero pubblicamente sulla piazza palle di piombo, volendo con ciò far nota la loro risoluta volontà di difendersi ad ogni costo. Prepararono eziandio in certi luoghi grande quantità di sassi atti ad essere scagliati colle mani donde senz’esser pur veduti potevasi batter le strade, le quali, per esser d’una quasi continua salita, ed avere delle svolte, possono essere facilmente da alcune eminenze guardate, e col solo scagliare di sassi, difese. Posero ancora sopra certe alture piccoli corpi di guardia ed alcune sentinelle, a ciò ispiassero se da lontano si vedessero francesi portarsi verso lassù. Ordinarono finalmente che le donne, con i fanciulli e coloro che non erano atti al cimento, si ritirassero nel ciglione del monte, che dalla parte di settentrione sta elevato sopra la detta contrada, seco conducendo le mobiglie e i bestiami: ed esse pure animate dalla medesima risoluzione, in caso che fossero assalite, erano disposte rotolar addosso ai nemici de grossi macigni e difendersi. Tale esempio d’ardire fu sprono alle vicine contrade, onde gli abitanti ancora di queste appresero a difendersi dalle incursioni di quei ladroni: anzi molte si unirono in alleanza e l’una coll’altra s’arrecavano scambievole soccorso. La risoluzione de’ paesani fece ben presto desistere i soldati francesi dalle incominciate rapine, mentre fece loro temere un generale ammutinamento.”
(tratto da Giambattista Don Alberghini ,avvenimenti della valle di caprino negli anni 1796-1801,in archivio storico veronese repertorio mensile di studi e documenti di storia patria,volume pagina 278-282)
Il 1°giugno 1796 Napoleone entra in Verona con le micce accese ai cannoni, nell’ostilità generale,subito i suoi si distinguono in ruberie ed empietà, non dando peso alla neutralità veneta ed impossessandosi delle fortezze(Castelvecchio,Castel san Pietro,castel san felice) e del relativo armamento.
Per non essere a sua volta rivoluzionata con la violenza o col tradimento, Verona dà subito prova della sua lealtà al legittimo governo, chiedendo al Senato Veneto di potersi armare e difendere dai giacobini bergamaschi e bresciani,ma la Serenissima pur di tenere fede alla politica di neutralità, proibisce ai veronesi qualsiasi atto di ostilità contro i francesi.
Verona decisa a non arrendersi costituisce la Guardia Nobile,cioè una milizia volontaria guidata dal generale Antonio Maffei,vengono così armati quarantamila veronesi,la coccarda giallo-azzurra coi colori cittadini è il loro emblema.Nel frattempo Il vescovo di Verona, Mons. Gianandrea Avogadro, dà ordine di fondere le argenterie delle chiese per la salvezza della patria.
Il 17 aprile 1797, lunedì dopo Pasqua,alle 17, durante i vespri, le batterie dei castelli sovrastanti la città e che sono in mano nemica, iniziano a cannoneggiarla,Il pretesto, dichiarato solo al termine della giornata, si riferisce all'uccisione di quattro francesi, che risulta poi mai avvenuta.
I veronesi esasperati insorgono come un sol uomo al grido di Viva San Marco!, mentre le campane a martello avvisano anche il contado che la sollevazione generale è iniziata.
La relazione del giorno seguente del Provveditore Giovanelli dirà:
"(..)una giusta brama di vendetta si sparse repentinamente tra il popolo, egli suonò campane a martello, lanciandosi contro i francesi, qua e là sparsi, soldati, gente d'amministrazione e donne, si attaccò la mischia e la strage fu rilevante, contandosi oltre cento gli estinti francesi e 26 veronesi".
La sollevazione popolare durò nove giorni,durante i quali il popolo assediò Castelvecchio (i popolani inesperti nell'uso dei cannoni vennero soccorsi da sei artiglieri austriaci liberati dalla prigionia di guerra),contemporaneamente vengono trasportati i cannoni sui colli di San Mattia e San leonardo,alture da dove poter attaccare i castelli di San Pietro e San felice,dove erano asserragliati i francesi.
In quei giorni migliaia di contadini dalla Valpolicella,dalla Lessinia e dalla bassa e est veronese accorrono a dar man forte alle truppe veronesi.
C'erano però anche dei traditori, infatti si scoprì perquisendo il ghetto ebreo che vi erano ivi occultati esplosivi e vario materiale bellico da consegnare ai francesi.
Dopo nove giorni di battaglia il generale francese fu costretto a discutere la resa,Castelvecchio alza quindi bandiera bianca e viene ordinato il cessate il fuoco,ma i rivoluzionari francesi scorgendo che gli assedianti si erano troppo avvicinati al castello,aprirono le porte e scaricarono a tradimento un cannone a mitraglia facendo una strage.
Nel frattempo giunge a Verona una pattuglia imperiale con la notizia dei preliminari di pace che si erano tenuti in quei giorni a Leoben tra Francia e Austria; la popolazione non sapendo nulla di questa pace e convinta che la presenza della pattuglia sia simbolo della scacciata dei francesi accoglie con entusiasmo gli austriaci.
Riporto la relazione del generale Maffei:
"18 aprile 1797: arrivano gli Imperiali.
Mentre si stavano facendo tutti questi preparativi, corse la guardia della PortaSan Giorgio a Palazzo, ad avvisare il Conte Giuliari che erano giunti gli Austriaci, che domandavano l'ingresso in città.
Una così lieta ed inaspettata notizia riempì il cuore di tutti d'una gioia impossibile a descriversi. Fu dato prontamente ordine di abbassare il ponte ed entrò il Conte di Neipperg,con un distaccamento di cavalleria, fra gli evviva ed il plauso di un folto popolo che correva a vederli, ed abbracciar loro gli stivali, come geni tutelari che venivano in soccorso nel momento del maggior bisogno.
I poveri sventurati Veronesi erano ben lungi dal pensare che questi fossero gli apportatori della sentenza fatale del loro intero sterminio. La commissione del Conte di Neipperg era l'annuncio ai Francesi in Verona dell'armistizio sottoscritto in Eckenwald il giorno 7 aprile e prolungato ancora d'altri otto giorni ai 13 dello stesso mese. Bonaparte si era dato tutta la possibile sollecitudine per le sue mire segrete, onde questo fosse prontamente pubblicato in ogni luogo"
(tratto da Antonio Maffei, Dalle Pasque Veronesi alla pace di Campoformido. La fine della dominazioneveneziana in Verona (marzo 1797-gennaio 1798), I vol, Rimini, Il Cerchio, 2005, p. 125.)
Alla fine di nove giorni di combattimenti i francesi contano a centinaia le vittime lasciate sul campo in quella che è diventata, per l’esercito più potente d’Europa, una cocente sconfitta militare.
Poco più di un centinaio sono i caduti veronesi. Circa 2.400 sono i prigionieri francesi catturati, dei quali 500 sono militari, altri 900 appartengono al personale civile dell’esercito napoleonico assieme ai loro familiari: tutti erano stati condotti in Piazza dei Signori, presso il palazzo dei rappresentanti veneti a Verona. Altri 1.000, infine, degenti negli ospedali cittadini, sono ivi piantonati dagli stessi veronesi per preservarli da ogni vendetta.
La sorte della città, privata di ogni soccorso esterno, è tuttavia segnata; ma il popolo non vuole ancora arrendersi,alla fine la città capitola il 25 aprile 1797, giorno di San Marco, dichiarando al tempo stesso, con un gesto simbolico che sottolinea il disprezzo per l’ignavia ed il tradimento dei veneziani e che la eleva a rango di capitale, cessato il dominio veneto su di essa.
“Per noi finì dunque nel giorno sacro al protettore della Repubblica Veneta, SanMarco, la nostra sudditanza a questa moribonda Repubblica, tributandole nell’atto estremo di nostra irreparabile caduta il più cruento sacrifizio che possa mai offrire una suddita fede sull’altar della sovranità. Bell’esempio agli altri popoli d’Italia, anzi a molti altri d’Europa, che,trascinati dal furor di fanatici banditori d’un governo ripugnante alle divine ed umane leggi,come noi [...] precipitati in un baratro d’infiniti guai e miserie, non ci avranno comune quel bel titolo di fedelissimo popolo da remoti tempi acquistatoci”
(tratto da "Girolamo De’ Medici, Vicende sofferte dalla provincia veronese sul finire del secolo XVIII e nel cominciamento del XIX,manoscritto n. 1360, presso la Biblioteca Civica di Verona, II, pag. 288")
Ecco le conseguenze:
- continue esecuzioni da parte dei francesi,in località Ca’ dei Capri, cade fucilato sotto il piombo francese un giovanissimo sacerdote, Don Giuseppe Malenza, che guidava un gruppo d’insorgenti.
- il popolo viene disarmato e i cannoni resi inservibili,molte persone vengono fucilate.
- viene sacheggiato il Monte di pietà
- vengono depredate le opere d'arte
- si parla di cambiare nome a Verona in Egalitopoli
- vengono scalpellati gli stemmi di san Marco e abbattuti gli stemmi nobilari.
- il tribunale militare francese condanna a morte gli insorgenti veronesi appoggiandosi ad una legge che punisce i reati commessi in territori in guerra con la Francia,peccato che la Serenissima si fosse sempre dichiarata neutrale!)
- vengono deportati in massa in Francia 2500 uomini della guarnigione veneta che avevano difesola città,in particolare il reggimento di fanteria treviso,verranno portati nel primo campo di concentramento moderno.Da quei campi di prigionia tornarono meno della metà dopo la pace di Campoformido.
Per giustificarsi di aver aggredito una città ed una Repubblica neutrale ed in pace con loro,rovesciano la responsabilità sulle vittime facendo passare le vittime ree di aver compiuto un eccidio di massa di soldati francesi malati o feriti.
Verona,non fu l'unica città costretta a subire le angherie dei giacobini:
ASOLO
"Racconto del zuanne in cattolica fede - adi 26 giugno 1797 more veneto
io Zuanne oste in croseta ,qui io dichiaro il quantomi suceso la tarda sera, uno gruppo di soldati cavalleggeri e appiedatti ,mi son capitati a chieder cena in tarda ora ,mi non sapeva cosa fare ma il capitan mi fecce capir in malo modo di obbedir ,adesso li miei conti mancano da pagar ; vino grosso 30 mastelli con 20 goti de vero de bon -pan de semensa sie sachi- ovi do seste -due tarine di lardo -mi ruban anche do sachi de sorgoturco -la latte tutta chel gera e parfino tute le candele .di primo conto fato il dano è di 316 lire venete ,ringrasio l'arciprete di cornuda par tanto aiuto dato .il zuanne bernardin "
BASSANO DEL GRAPPA
"Li 25 marzo 1797,di poco passato il novo anno (..) in ogni occasione li francesi che noi supplissimo ai loro bisogni di cibi,foraggi,di vesti,d'alloggi e di giovine donne e guai se le nostre proprietà a un sol cenno non passavan a loro(..)
In mezzo a si grande difficoltà si tentava di conservare fedele il popolo a San Marco (..) si comincia di buon matino a distribuire le coccarde veneziane di tre colori (leon giallo con rosso e bianco) (n.d.r sono i colori di bassano) e ben prest le misero persone di ogni età e grado compreso l'arciprete Tattara(..) con questo si volle dimostrare che qui dominavano ancora i veneziani,ma qui in pratica i patroni erano li brutali francesi(..)
Un ufiziale chiese ancora foraggi e cibi al podestà Contarini ma alla risposta di trovar manco che nulla del Contarini,l'ufiziale francioso montato a furia gli fece l'onor di intimargli di abbruciargli il palazzo con lui di dentro e le sue coccarde del governo veneto(..)
Ai primi citadini furono poi strapate tutte le coccarde decorate con il leone "
(archivi comunali Bassano del Grappa)
FELTRE
"19 marzo 1797 more veneto
la matina del 19 marso di poco pasa' el cao del ano novo li francesi ocupa feltre , e fatte le malegrasie sulle famiglie e dopo di aver arrubato tutte le scarpe delli canonici e dei nobil de feltre,si la prende con tali fartelli dal covolo che venutesi a trovar per curiosità nel veder le trupe,vengono bastonati e bottesai,salvati per miracolo- il comandante un tal general verges el obliga , di stacar le insegne serenissime e ordina a mi e altri capi famiglia di entrar nel duomo par istituir el novo consilio democratico,i me fà star li per du giorni e du noti sensa cibarie e bevar(..) li ghemo contentà a malin cor son deventà el novo presidente "
(Diario di Gioanni Norcen - comune di arsiè)
CORNUDA(TV)
"Alli 20 giugno 1797 More Veneto
In fede io affermo arciprete Miotti B. di aver visto quanto segue alli danni dei cittadini veneti,Piero Manon et Cesare da Trieste,par man delli francesi di truppa.
Il MANON dichiara il quanto vero: mi ga fermato li soldati franciosi con malo modo e botte tante mi ga arrubato una cassa di vesti con dentro mesordin di scarlatto-bragonie gilè di londrin-gilè da festa in setta-bragoni di medalaneta- bracche di tella -calze di bombaso parra due-un tabaro e diso tre parri de scarpe l'una era di nuova -mi lason nudo meso la strada maestra e botesà
Il TRIESTE dichira il quanto vero:nelli giorni di questi non sò più capir chi lè el paron ,lo principe o el forestier ,ma el peso me le capità de forestier ,doppo che el me gà sparatto addietro e dopo gavermi insultato par bene mi arrubato di 35 lire venete e due colane di mia mare ,ora bene mi trovo sensa niente ,mi gà curato lo prete che li stava."
Dopo diciotto mesi ,Il 21 gennaio 1798, le divisioni imperiali comandate dal Barone Wilhelm von Kerpen, da Porta Nuova entrano in formazione di parata in città, accolte da una popolazione in delirio.
Per approfondire:
- "Girolamo De’ Medici, Vicende sofferte dalla provincia veronese sul finire del secolo XVIII e nel cominciamento del XIX"
- "Il diario dell'oste, di Valentino Alberti, a cura di Maurizio Zangarini, Verona, Cierre edizioni, 1997"
-"Empietà, ruberie, fatti d’arme e insorgenze popolari nel territorio di Rivoli al tempo delle Pasque Veronesi: parlano le fonti storiche(PDF a cura di Nicola Cavedini)