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Moti popolari del 1848

Anche la dominazione sotto gli austriaci sfociò in veri e propri moti rivoluzionari:

 

Il 18 gennaio 1848, a Venezia, vengono arrestati dalle autorità austriache Daniele Manin e Niccolò Tommaseo protagonisti di quella che veniva chiamata “lotta legale” o “opposizione legale” al governo di Vienna

 

Il 17 marzo 1848 arriva a Venezia, tramite il vapore postale giunto da Trieste, la notizia che a Vienna Metternich si è dimesso ed è stata concessa la Costituzione: nasce una manifestazione popolare che Il 22 marzo 1848 scoppia in una vera e propria rivoluzione.

La rivoluzione porta alla liberazione,da parte della popolazione,di Tommaseo e Daniele Manin,quest'ultimo proclama in piazza San Marco la Repubblica Veneta, di cui viene eletto presidente per acclamazione.


Celebre è il suo discorso:
"Noi siamo liberi, e possiamo doppiamente gloriarci di esserlo, giacché lo siamo senza aver versato goccia né del nostro sangue né di quello dei nostri fratelli; perché io considero come tali tutti gli uomini.Ma non basta aver abbattuto l’antico governo; bisogna altresì sostituirne uno nuovo, e il più adatto ci sembra quello della Repubblica, che rammenti le glorie passate, migliorato dalle libertà presenti. Con questo non intendiamo già di separarci dai nostri fratelli italiani, ma anzi formeremo uno di que’ centri, che dovranno servire alla fusione successiva e poco a poco di quest’Italia in un sol tutto.Viva dunque la Repubblica! Viva la libertà! Viva San Marco!"

"(..)Il Manin venuto sul rialzo che sta dinnanzi la porta dell'arsenale, propose, uno dopo l'altra, tutte quelle acclamazioni che potevano essere gradite: alla libertà, all'Italia, ma non gli parve che a veruna fosse risposto con quella veemenza d'affetto che credeva necessaria a far sicuro l'ordine pubblico. Da ultimo provò il grido di Viva San Marco! e fu tale la risposta, che non vide possibile a Venezia altro che la Repubblica"
(tratto da “Storia documentata della rivoluzione e della difesa di Venezia negli anni 1848-49 tratta da fonti austriache e italiane” di Vincenzo Marchesi)

 

la "Gazzetta di Augusta" di quei giorni scrisse:

"Chi non conosce i veneziani non può formarsi idea dell'effetto che esercita su di loro un tal grido. Io vidi alcuni vecchi cadere a ginocchi piangendo davanti il Sacro Vessillo e pregare Dio di lasciarli ancor vivere. Le donne e i fanciulli ne seguivano l'esempio"

 

Nel suo diario Teresa Manin scrisse:

“Era un’ebbrezza, un delirio: i vecchi piangevano, i giovani si abbracciavano. Chi batteva le mani, chi le alzava al cielo in atto di rendere grazie”

 

Nel nuovo governo un ruolo centrale spettò al dalmata Niccolò Tommaseo ministro del Culto e dell’Istruzione secondo il quale una confederazione repubblicana delle regioni doveva essere permanente e non un graduale passaggio verso la repubblica unitaria.

Di quel giorno scrisse:
"Parve che la città, al nome di repubblica sposato con antico sacramento a quello di San Marco avesse risposto come persona chiamata col suo nome proprio"
(tratto da "La repubblica del leone-Alvise Zorzi")

 

Emblematico il primo decreto che appare sulla "Gazzetta di Venezia” del 23 marzo 1848:

 

“Il Governo provvisorio della Repubblica Veneta dichiara agli stranieri dimoranti in questa città, di qualunque nazioni e opinione siano e qualunque siano i loro antecedenti politici, che sarà ad essi usato ogni riguardo qual si conviene tra nazioni civili, e massime a questo paese noto per l’ospitalità sua. Il Presidente Manin"

E’ importante sottolineare come graficamente nella Gazzetta emergono due concetti: “Viva San Marco” e “Foglio Ufficiale della Repubblica Veneta”

 

In seguito altre città aderirono alla rivolta, tra le quali Padova, Rovigo, Treviso, Udine,Vicenza ,Belluno,Udine.Emergono figure straordinarie come quella di Pietro Fortunato Calvi.


 

Il 24 marzo 1848 esce sulla"Gazzetta di Venezia” un altro decreto:

 

Il nome di Repubblica Veneta non può portare ormai seco alcuna idea ambiziosa o municipale. Le Provincie, le quali si sono dimostrate tanto coraggiosamente unanimi alle comune dignità; le Provincie, che a questa forma di governo aderiscono, faranno con noi una sola famiglia senza veruna disparità di vantaggi e diritti, poiché uguali a tutti saranno i doveri: e incominceranno dall’inviare in giusta proporzione i loro Deputati ciascuna a formare il comune Statuto. Aiutarsi fraternamente a vicenda, rispettare i diritti altrui, difendere i nostri, tale è il fermo proponimento di tutti noi”

 

 

Il 27 marzo 1848 il Governo provvisorio di Vicenza dichiarerà:

“Con tale adesione peraltro non s’intende pregiudicare in guisa alcuna, né la desiderata e sperata unione della Venezia alla Lombardia, né una speciale confederazione di questi due Stati che rimanessero disgiunti,né (e molto meno) la generale confederazione degli Stati Italiani”

 

Concetti che vengono ribaditi il 29 marzo 1848,sempre sulla "Gazzetta di Venezia”

 

“I cittadini delle Provincie Unite della Repubblica, qualunque siano le loro confessioni religiose, nessuna eccettuata, godono di perfetta uguaglianza dei diritti civili e politici. Tutte le differenze nella vigente legislazione, contrarie a questo principio, sono tolte dalla sua applicazione. Le magistrature giudiziarie e amministrative sono incaricate di questa applicazione nei singoli casi ricorrenti. Manin"

 

Però l'austria rispose all'insurrezione in modo atroce e in poco tempo riuscì ad occupare tutta la terraferma,a Venezia viene quindi convocata un "assemblea di Deputati"(un parlamentino ove ci sia un eletto ogni duemila abitanti) con il compito di verificare le scelte politiche del governo stesso.

L’Assemblea si riunisce in Palazzo Ducale la prima volta il 3 luglio 1848; Daniele Manin nel suo intervento si riallaccia alle glorie del passato:

 

“Cittadini deputati, nel 22 marzo, cessata in Venezia l’austriaca dominazione, il popolo proclamò la Repubblica: cinquant’anni di schiavitù non potevano avergli fatto dimenticare 14 secoli d’indipendenza gloriosa”

Il giorno dopo si va al voto: la prima votazione, se la condizione politica della Repubblica debba decidersi subito o no, vede 130 si, e solo 3 no; la seconda sull’immediata fusione della Repubblica Veneta negli Stati Sardi colla Lombardia vede 127 si, e 6 no; la terza sulle sostituzioni e forme dei ministeri fu rinviata al giorno successivo.

Manin venne eletto membro di nuovo, probabilmente sarebbe stato rieletto a presidente ma egli rispose:

“Io ringrazio vivamente l’Assemblea di questo nuovo contrassegni di fiducia e di affetto, ma debbo pregarla di dispensarmi. Io non ho dissimulato che fui, sono e resto repubblicano. In uno stato monarchico io non posso esser niente, posso essere della opposizione ma non posso essere del governo…”.

 

A suo posto venne eletto l’avv. Jacopo Castelli che resse il governo provvisorio fino al 7 agosto quando il potere venne assunto dal tre commissari in nome del re Carlo Alberto (generale Colli, cav. Cibrario, avv. Castelli)

 

E' interessante riportare cosa annotava Emmanuele Cicogna nel suo diario:
"i Veneziani si erano dati al re di Sardegna non perché desiderassero veramente la fusione, ma perché, di fronte al pericolo di un ritorno in forze dell'Austria, avevano bisogno di aiuto. "
(tratto da "Diario veneto politico di Emmanuele Antonio Cicogna")

E' interessante anche riportare la canzonetta dei gondolieri per capire il clima che aleggiava all'epoca

“No intendo ben sto termine ke sento dir fusiòn; me par che i se desmentega de meter prima un con”

 

Il 23 marzo 1848 Carlo Alberto di Savoja aveva dichiarato guerra all’Austria, la cosiddetta “Prima guerra d’indipendenza”, lanciando il proclama “Ai popoli della Lombardia e del Veneto”. In un primo tempo le sorti della guerra sembrano essere favorevoli al Regno di Sardegna con la vittoria di Goito e la resa della fortezza di Peschiera.
 

L’incertezza e l’ambiguità di Carlo Alberto fanno in questa fase il gioco degli Austriaci guidati dal feldmaresciallo Radetzky che il 25 luglio 1848 sconfiggono a Custoza i piemontesi. Le truppe sabaude iniziano la ritirata verso Milano che viene poi abbandonata praticamente senza combattere.Da qui le violente polemiche nei confronti di Carlo Alberto.

 

Le truppe napoletane arrivarono sul teatro di guerra solo a metà maggio quando, in procinto di attraversare il Po da sud, ricevettero l'ordine di tornare indietro perchè il re Ferdinando II doveva riconquistare la Sicilia.
I generali napoletani Guglielmo Pepe e Carlo Mezzacapo non se la sentirono di abbandonare i veneziani e così disobbedendo all'ordine del loro rè insieme ad un migliaio di soldati, si unìrono ai veneziani assediati combattendo e morendo con dalmati e svizzeri pontifici a loro fianco.

I volontari duosiciliani si distinguono nel sorprendente attacco al villaggio del Cavallino, nella coraggiosa presa del Forte Marghera di Mestre, nella strenua difesa di questa importante roccaforte sulla terraferma e, infine, nell’eroica ultima resistenza della città lagunare, bombardata senza sosta per ventiquattro giorni da terra e dal cielo.
Venezia si arrende il 22 agosto del 1849 per le cannonate, la fame e una violenta epidemia di colera. Per i maggiori esponenti della Repubblica si spalancano le porte dell’esilio. Anche Guglielmo Pepe e i napoletani sopravvissuti devono lasciare l’ex città dei Dogi. L' insubordinazione all'ordine del re, non consente loro di ritornare a casa e sono costretti all’esilio. 
Oggi, i nomi dei volontari napoletani della Repubblica veneta di san Marco sono ricordati, oltre che dal monumento di Calle Larga de l’Ascension a Venezia, dalla toponomastica di Mestre: via Guglielmo Pepe, via Alessandro Poerio, via Cesare Rossarol, via Enrico Cosenz e via Girolamo Ulloa.

 

Il 6 agosto gli austriaci rientrano a Milano e il 9 viene firmato a Vigevano l’armistizio cosiddetto di Salasco (dal nome del generale Carlo Canero di Salasco).L’armistizio, prevede, tra l’altro, il ritiro delle truppe sabaude da Venezia;

I commissari regi inviati da Carlo Alberto di Savoia arrivarono a Venezia il 7 agosto 1848, quando l'esercito piemontese era già stato sconfitto dagli austriaci a Custoza.

Il giorno successivo un messaggero portò la notizia che i soldati asburgici avevano fatto il loro ingresso a Milano.

Il malcontento dei veneziani si fece palpabile e quando, l'11 agosto 1848, giunse la notizia che il re aveva firmato l'armistizio Salasco, col quale si impegnava a ripassare il Ticino e a sgomberare Venezia, l'indignazione popolare proruppe.

A calmare la folla inferocita che gridava Abbasso i traditori! morte ai commissari! avrebbe potuto riuscire una sola persona, Manin, e a Manin fu fatto appello.

 

Daniele Manin quindi rendendosi conto della drammaticità della situazione assume per 48 ore il potere, i commissari regi vengono rimossi, per il 13 agosto 1848 viene convocata l’ “Assemblea dei Deputati” e in questo modo i tumulti cittadini vengono placati.

Nelle stesse ore Nicolò Tommaseo parte per Parigi per cercare aiuti.

L’Assemblea del 13 agosto elegge un Triumvirato con Manin, Cavedalis e Graziani che resterà in carica fino al termine della guerra

 

 

Una cronaca più dettagliata di questi fatti ci viene offerta da un manifesto murale stampato nel 1848 a Trieste dall'editore e tipografo Giovanni Marenigh:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Pochi giorni dopo viene lanciato un prestito di 10 milioni di lire garantito da ipoteche sul Palazzo Ducale e sulle Procuratie Nuove.

 

Il primo febbraio 1849 torna in Patria Nicolò Tommaseo. Viene sostituito come Ambasciatore a Parigi dallo scledense Valentino Pasini

 

Il 2 Aprile 1849 l’Assemblea dei Rappresentanti dello Stato di Venezia in nome di Dio e del Popolo unanimemente decreta:

“L'Assemblea dello Stato di Venezia in nome di Dio e del Popolo, unanimemente decreta: Venezia resisterà all'Austriaco ad ogni costo. A tale scopo il Presidente Manin è investito di poteri illimitati"

 

Il 25 aprile 1849, giorno di San Marco, giorno di festa, Manin arringa il popolo cominciando il suo intervento con queste parole:

“Cittadini! Chi dura vince, e noi dureremo e vinceremo. Viva San Marco!”

 

Pochi giorni dopo, il 4 maggio 1849, incomincia il bombardamento del forte Marghera; Radetzky intima la resa di Venezia, promettendo a Daniele Manin il perdono. Manin risponde inviando il decreto del 2 aprile, resisteremo a ogni costo.

 

Per dare un'idea di quale seguito avesse a quel tempo Manin,basta pensare che durante la difesa di Venezia del 1848-49 ci fu la necessità di creare una moneta ,il Governo provvisorio di Daniele Manin chiese quindi ai veneziani di conferire l’argenteria di famiglia, e i veneziani lo fecero senza batter ciglio.
la moneta in questione furono 5 lire in argento della Repubblica Veneta (vedi foto)

 

Nel frattempo va ricordato come l’iniziativa diplomatica della Repubblica portasse, in questi giorni, a un risultato concreto.Proprio come nel Veneto, nell’Ungheria nel marzo del 1848 era scoppiata una rivoluzione anti asburgica con alla guida un capo carismatico come Lajos Kossuth; Nicolò Tommaseo durante il suo soggiorno a Parigi era riuscito a creare un notevole rapporto con i rappresentanti del popolo magiaro che si concretizzò nella convenzione di alleanza fra l’Ungheria e Venezia.

A Duino il 20 maggio 1849 fu firmata la convenzione di otto articoli che iniziava con “Nessuno dei due Stati potrà stipulare un patto o un trattato di pace qualsiasi col nemico comune senza il concorso o l’approvazione dell’altro”Il documento ebbe una grandissima eco in città e provocò un’ondata di ottimismo e di entusiasmo: si favoleggiava di un contributo di mezzo milione di lire per la Repubblica, di un esercito di cinquantamila soldati ungheresi in marcia su Trieste.Non fu così anche se va ricordato come la nazione ungherese fu l’unica a dare un sostegno concreto a Venezia.

Il sogno ungherese si spense il 13 agosto con la battaglia di Vilagos dove l’intervento dell’armata russa fu determinante per sconfiggere l’eroismo degli ungheresi

 

Torniamo a Venezia: il 26 maggio 1849 viene abbandonato il forte di Marghera; il 31 l’Assemblea risponde al messaggio del ministro austriaco De Bruck che la base per ogni trattativa rimane l’indipendenza assoluta del Lombardo-Veneto; al diniego da parte austriaca, la trattativa si sposta sull’indipendenza della città, con un raggio di territorio che rendesse economicamente possibile tale realtà.

Il ministro rispose che l’Austria aveva deciso di riconquistare Venezia e solo dopo si poteva discutere

Il 12 luglio 1849 gli Austriaci sperimentano sulla città dei palloni aerostatici incendiari che non provocano fortunatamente danni.

 

il 15 agosto 1849 l’epidemia di colera tocca l’apice: 402 casi con 270 morti.

Il 18 agosto 1849 Manin parla per l’ultima volta al popolo in piazza San Marco:
" le condizioni sono gravi, ma non disperate. Per negoziare occorre calma e dignità; l’unica cosa che non si può chiedergli è la viltà: nemmeno per Venezia può arrivare a tanto"

 

Il 22 agosto 1849 una delegazione si reca nella terraferma mestrina, a Marocco, per trattare la resa di Venezia.Il 24 agosto il Governo provvisorio, con la dichiarazione di Manin, chiude la propria esperienza; il governo della città viene assunto dal podestà Correr e da 14 membri

(Celebre è la poesia di Arnaldo Fusinato,bandiera bianca, che ricorda quell'evento)

 

Manin (insieme ad una quarantina di persone) dovette così prendere la via dell’esilio. Si rifugiò a Parigi, dove morì nel 1857.

E' proprio da questi anni d'esilio che possiamo farci un'idea più chiara a cosa ambiva in realtà Manin

Nello scritto che segue (del gennaio 1856),Manin sintetizza la propria posizione circa la questione italiana.

 

"Parigi, 22 gennaio 1856

 

Per ben comprendere e giudicare la mia condotta in quanto concerne la quistione italiana, bisogna distinguere – perdonate alla fretta l’uso di nomi ambiziosi – il pensatore e l’uomo politico.Come pensatore ed a priori, credo che la repubblica sia il migliore dei governi, e che l’esercizio della libertà sia più largo e sicuro con la forma federale.Come uomo politico, vado con paziente cura cercando quello che è praticamente possibile; e quando parmi averlo trovato, m’ingegno d’indirizzare la mia azione per la via che stimo ad essa pratica possibilità conducente.

Ho lungamente meditato sull’arduo problema del riscatto italiano, ed ho diligentemente analizzate le varie opinioni apparentemente tanto diverse delle varie frazioni di patriotti.

Le pratiche conclusioni, che mi è sembrato di poterne tirare, son queste:1° Le varie frazioni di patriotti italiani sono concordi nei punti essenziali.2° Bisogna constatare questa concordia, trovare una formula che chiaramente ne esprima i termini, inscrivere questa formula sopra una bandiera, rannedare intorno a questa bandiera le varie frazioni di patriotti, e costituire così il grande partito nazionale.Il primo punto essenziale, sul quale tutti i patriotti italiani sono d’accordo, è l’indipendenza. Ma perché l’indipendenza sia solidamente costituita e conservata, è necessario che l’Italia, cessando d’essere una espressione geografica, diventi una individualità politica.

Tre sono le forme possibili d’individualità politica: unità monarchica, unità repubblicana e confederazione repubblicana. La parola unificazione comprende queste tre forme. Dunque il secondo punto parimente essenziale è l’unificazione. Questi due punti sono reciprocamente connessi ed inseparabilmente legati: l’Italia non può essere unificata se non è indipendente, e non può durare indipendente se non è unificata. Ecco pertanto i cercati due termini della formula, ecco l’iscrizione della bandiera nazionale: INDIPENDENZA ED UNIFICAZIONE.

Ho proposto questa formula, ho mostrato questa bandiera, ho invitato a schierarvisi intorno tutti i sinceri patriotti italiani.Chiamo sinceri patriotti italiani quelli che amano l’Italia sopra ogni altra cosa, e considerando come l’ordine subordinato le quistioni di forma monarchica e repubblicana, sono pronti ad ogni sacrifizio per fare l’Italia, cioè per renderla indipendente ed una; e quindi, tanto i repubblicani che amano l’Italia più della repubblica, quanto i realisti che amano l’Italia più d’una dinastia qualsiasi.

Ho motivo di credere che questo invito non sia rimasto senza frutto. Al di fuori del partito puro piemontese e del partito puro mazziniano, v’è la gran massa, la grande maggioranza dei patriotti italiani. Questa, per diventare il grande partito nazionale, ed assorbire gli altri, aveva bisogno d’una bandiera propria, con una iscrizione concisa che ne esprimisse nettamente le aspirazioni. Ciò ora esiste. L’impulsione è data: parmi lecito sperare che il tempo farà il resto.Il partito piemontese, ed il partito mazziniano, hanno entrambi, a mio avviso, il torto d’essere troppo esclusivi. Il primo rifiuta il concorso dei repubblicani, ed il secondo rifiuta il concorso dei realisti.

L’uno pare che dica: Più dell’Italia, amo la dinastia di Savoia; e l’altro pare che dica: Più dell’Italia, amo la forma repubblicana.Ora, s’egli è vero, come a me sembra, che per preparare la grande opera della emancipazione italiana sia necessario riunire tutte le forze della nazione, e non dividerle; s’egli è vero, come a me sembra, che nè i realisti soli, nè i repubblicani soli, sieno abbastanza forti per riuscire isolatamente; parmi riesca evidente che nè il partito mazziniano, nè il partito piemontese, hanno le condizioni volute per essere, o per diventare il grande partito nazionale.Il grande partito nazionale dovrebbe dunque costituirsi sotto l’influenza d’una idea di conciliazione, d’opinione e di concordia, al di fuori dei partiti piemontese e mazziniano, che rappresentano idee di esclusione, di disunione e di discordia. Esso dovrebbe chiamare a sè ed assorbire tutto ciò che di veracemente patriottico esiste in quei partiti, i quali verrebbero così gradatamente a scomparire, od a convertirsi in piccole consorterie di pochi settarii.E come, in quanto a patriottismo sincero ed operoso, non credo ad alcuno secondo il grande italiano Giuseppe Mazzini, mi parrebbe lecito nutrire la speranza ch’egli pure si lascerebbe indurre ad aggiungere un nuovo eminente servigio ai tanti già resi alla causa della diletta sua patria, sacrificando le preferenze di setta per entrare nel partito della nazione.

La costituzione del partito nazionale, che nei limiti delle poche mie forze tento procurare, sarebbe, se non erro, un gran passo nella strada che dee condurre alla redenzione italiana.Molti altri importanti e difficili resterebbero certamente da fare, ma questo primo servirerebbe a prepararli e a facilitarli.Il partito nazionale comprenderebbe patriotti realisti e patriotti repubblicani. Vincoli potenti d’unione e di concordia fra loro sarebbero, la comunione dello scopo, e la ferma risoluzione di sacrificare le loro predilezioni di forma politica in quanto per la consecuzione di quello scopo fosse richiesto.Bisognerebbe rendere ancora più intima questa unione, ancora più forte questa concordia, trovando il modo di fondere quelle due frazioni in guisa da costituirne un tutto compatto. Per ciò si esigerebbero concessioni reciproche, dalle quali potesse risultare un accordo, o transazione, o, come voi dite, compromesso. Nel rinvenire i termini di questo compromesso sta il vero nodo della quistione. A sciogliere questo nodo debbono pensare tutti i veri amici d’Italia. Io per parte mia ho proposta una soluzione. Se altri ne trova una migliore, l’accetto.Il Piemonte è una grande forza nazionale. Molti se ne rallegrano come d’un bene, alcuni lo deplorano come un male, nessuno può negare che sia un fatto. Ora i fatti non possono dall’uomo politico essere negletti: egli deve constatarli, e cercare di trarne partito.Rendersi ostile, o ridurre inoperosa questa forza nazionale nella lotta per l’emancipazione italiana, sarebbe follia. Ma è un fatto che il Piemonte è monarchico. E’ dunque necessario che all’idea monarchica sia fatta una concessione, la quale potrebbe avere per corrispettivo una convalidazione dell’idea unificatrice.

A mio avviso, il partito nazionale italiano dovrebbe dire:“Accetto la monarchia, purché sia unitaria: accetto la casa di Savoia purché concorra lealmente ed efficacemente a fare l’Italia, cioè a renderla indipendente ed una. – Se no, no – cioè se la monarchia piemontese manca alla sua missione, cercherò di fare l’Italia con altri mezzi, ed anche ricorrendo, ove bisogni, ad idee divergenti dal principio monarchico.”Ora mi domanderete forse come io creda che la monarchia piemontese debba condursi per adempiere alla sua missione.Ecco la mia risposta:La monarchia piemontese, per essere fedele alla sua missione,Dee sempre tenere dinanzi agli occhi, come regola di condotta, lo scopo finale, consistente nell’italiana INDIPENDENZA ED UNIFICAZIONE;Dee profittare d’ogni occasione, d’ogni opportunità, che le permetta di fare un passo in avanti nella via conducente verso quello scopo;Non dee a verun patto, e sotto verun pretesto, far mai alcun passo retrogrado, o divergente;Dee con cura vigilante e vigorosa cercar d’allontanare e rimuovere tutto ciò che in quella via le potesse riuscire d’impedimento o d’inciampo;Dee quindi evitare tutto ciò che in qualunque modo le potesse legare le mani, astenersi da ogni accordo coi perpetui nemici d’Italia, l’Austria ed il papa, e a nessun prezzo prender parte a trattati che confermino o riconoscano quella posizione territoriale e politica, ch’essa è chiamata a distruggere;Dee mantenersi il nucleo, il centro d’attrazione della nazionalità italiana;Dee impedire che altri nuclei, che altri centri d’attrazione si formino;Quando la grande battaglia del riscatto nazionale sarà impegnata, dee prendervi parte risolutamente, e non deporre la spada finchè l’Italia non sia fatta, arrischiando senza esitazione di perdere il trono di Piemonte per conquistare il trono d’Italia.

(tratto da "Lettere di Daniele Manin a Giorgio Pallavicino sulla Quistione italiana")

 

Un'altra informazione ci viene dalla domanda che fece W. Nassau a Daniele Manin negli anni del suo esilio parigino;gli chiese cioè quali furono i veri obbiettivi dell'insurrezione veneziana.
Manin risponderà:
“Preferivamo essere una Repubblica indipendente confederata con gli altri stati italiani. 

Se Carlo Alberto si fosse presentato come un uomo disinteressato; se non avesse fatto una guerra egoistica per l’ingrandimento del Piemonte(..) il Piemonte usava il pretesto di una guerra di liberazione per fare in realtà una guerra di ambizione e di conquista”.

 


Le rivolte contro l'austria però,sebbene di entità minore rispetto ai moti del 1848-49,continuarono uito dell'accentuarsi di attività' criminali nei pressi di Este le autorità austriache istituirono due sezioni venete e lombarde del tribunale statario, che dal giugno 1850 al giugno 1853 svolsero 1400 processi, emettendo «1.144 sentenze di morte di cui 409 eseguite"
(tratto da Luigi Piva, "O soldi o vita: brigantaggio in Bassa Padovana e nel Polesine alla metà dell'Ottocento" Grafica Atestina, 1984 citato in Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella Il rogo delle case e

400 morti che nessuno vuole riconoscere)

 

(Liberamente tratto da: "Questione Veneta,Ettore Beggiato,2015")

Monete  e medaglie patriottiche stampate da Manin

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